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L’ultimo post, con un menù proposto dalla rivista La Cucina Italiana nell’ottobre del 1934 ha suscitato una vivace discussione su cosa veramente mangiassero gli italiani di una volta. E quali italiani in particolare: i contadini? La classe urbana piccolo borghese? I ricchi? Il generico “popolo” ? E poi, quando si parla di “cucina di tradizione popolare”, che cosa si intende veramente? Quale era questo “popolo” che la mangiava? E quanto spesso?
Caso vuole che abbia iniziato a leggere un bel libro che, tra le altre cose, affronta anche questi argomenti. Si tratta di “Pensato e mangiato”, di Daniele Tirelli.”Il cibo nel vissuto e nell’immaginario degli italiani del XXI secolo”. (Un grazie all’amico Antonio Pascale che me lo ha fatto conoscere)
Per analizzare il modo con cui l’italiano moderno guarda e pensa al cibo e alla cucina di oggi Tirelli parte con l’analizzare che cosa e quanto realmente mangiassero gli italiani nei secoli scorsi, per poi indagare sul perché gli italiani di oggi abbiano essenzialmente, complice l’industria e il marketing, una idea distorta e falsificata di cosa sia realmente la “tradizione culinaria italiana”.
Il libro riporta dei grafici (fonte ISTAT) molto interessanti che riguardano i consumi di vari alimenti degli italiani al variare del tempo. Li ho colorati per migliorarne la leggibilità
Il primo grafico che vi presento è il consumo di frutta e ortaggi degli italiani. Notate come il consumo si sia impennato a partire dagli anni ’60. Se il consumo di patate è rimasto quasi costante frutta fresca e pomodori, e più di recente gli agrumi, sono aumentati di molto.
Mangiamo sicuramente molta più frutta e verdura noi oggi (e di migliore qualità) di quanto ne mangiassero i nostri bisnonni. I molti piatti della “tradizione” a base di ortaggi non dovevano essere poi molto frequenti, almeno per la gran parte degli italiani.
Il consumo di carne e pesce è invece aumentato in modo spettacolare a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Interessante notare che solo dieci anni dopo la fine della guerra si sono raggiunti i livelli di consumi di carne e pesce rimasti stabili per tutti gli anni ’30 (anni di cui abbiamo parlato nel post precedente). Si deve però tenere conto che mentre prima della guerra il consumo di carne e pesce era di carattere più elitario, dopo la guerra aumentano i consumi globali, rendendo accessibili le proteine animali a quasi tutti. Anche qui la considerazione è analoga: quando parliamo di bolliti, stufati, lessi, arrosti, brasati e quant’altro come piatti “popolari” siamo sicuri che fossero conosciuti al “popolo” ? E in quali anni?
Ecco come commenta Tirelli
L’aspetto più impressionante di questo indubitabile sviluppo resta tra tutti sicuramente la rivoluzione alimentare costituita dalla crescita del consumo di carni.
Il grafico mostra appunto come in un lasso di tempo brevissimo l’apporto di proteine animali sia pressoché decuplicato rispetto agli anni del Risorgimento e quintuplicato rispetto agli ultimi anni del regime fascista.
È in ogni caso difficile comprendere, al di là degli aspetti culturali, cosa possa aver significato realmente dare piena soddisfazione al desiderio perennemente represso di carne che ha afflitto per secoli la nostra popolazione. Matilde Serao ne il ventre di Napoli (ed. 2005) ci offre uno spunto utilissimo riportando la sintesi di un “questionario” riferibile più o meno al 1880, che recità così
- Carne Arrosto? Il popolo napoletano non ne mangia mai
- Carne in Umido? Qualche volta, la domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello
- Brodo di carne? Il popolo napoletano lo ignora.
Mangiare carne a sazietà, soprattutto arrosto, appare dunque come una delle maggiori conquiste sociali della popolazione italiana, che probabilmente ne è ancora psicologicamente condizionata.
Sul pesce: La seconda metà del XX secolo ha visto un ribaltamento vero e proprio dei precedenti concetti di qualità con la rapida caduta delle preferenze per il pesce d’acqua dolce, ritenuto il più pregiato, e l’innalzamento di quello di mare, dei crostacei e dei molluschi in particolare.
Il consumo di cereali invece è addirittura diminuito dagli anni ’30 del secolo passato, soprattutto a spese di cereali minori come il granoturco (il “frumentone” di una volta) e la segale. Il consumo di frumento è leggermente diminuito dagli anni ’30. Quella che è cambiata è la composizione: meno pane e più pasta di vari tipi.
Anche il consumo di vino è fortemente diminuito, solo parzialmente sostituito con la birra.
Ecco come commenta Tirelli
Altrettanto interessante è la tendenza storica seguita da “alimenti liquidi” come il vino e la birra. La seconda, praticamente assente dai consumi di massa sino all’ultimo dopoguerra (tranne le eccezioni di piccole aree di tradizione locale), non può evidentemente essere messa in contrapposizione con la prima. Strutturalmente si può dire, di fatto, che, pur rimanendo eguali le quantità pro-capite totali consumate nella seconda metà dell’800 e nella seconda metà del ‘900 (circa 85 litri), è cambiata drammaticamente la qualità del vino destinato al mercato di massa. Di pessima qualità, artefatto ed annacquato nell’800, il vino ha goduto dell’innalzamento qualitativo e della destagionalizzazione grazie allo sviluppo dell’industria enologica. Tutto questo in barba al mito neoromantico del ”vino del contadino”, che tanta parte ha avuto nella stereotipizzazione dell’odierna tradizionalità.
Il tema della “tradizione” (vera, presunta o inventata) è un tema delicato e lo riprenderemo (quando avrò finito di leggere questo libro e alcuni saggi di Massimo Montanari ). Mi permetto solo per ora di suggerire l’idea che spesso non siamo in gradi di collocare temporalmente le ricette che conosciamo. Abbiamo già parlato della Carbonara, e di come in realtà sia un piatto entrato a far parte della “tradizione italiana” solo negli anni ’50. E quanti di voi sanno che il famoso Tiramisù, il dolce italiano forse più famoso al mondo, è di invenzione ancora più recente? Risale agli anni ’70, creato a Treviso al ristorante Le Beccherie. Scommetto che molti di voi pensavano (come me) che fosse un dolce “tradizionale”
Vi riporto un estratto dove Tirelli affronta il tema della “tradizione”
Non v’è dubbio che in campo alimentare si colga il continuo riemergere di un bisogno di “fede”, di certezze che il proliferare delle tecniche fuori dal controllo dell’”uomo qualunque” sembra aver cancellato. Sono sentimenti che giustificano questo nuovo grande amore per la ”tradizione”, per un modello che “deve” esistere indipendentemente dai fatti accertati.
Storicamente, qualora si volesse ravvisare il riprodursi nel corso della storia di un modello di cucina italiana, occorrerebbe aderire al principio che la sua esistenza e la sua circolazione possono essere percepite soltanto facendo riferimento a quel che accadde nei circoli aristocratici e nelle diverse élite cittadine. Sappiamo cioè che usi e costumi alimentari non furono diffusi omogeneamente tra le grandi masse di popolazione, costrette invece a regimi poveri, monotoni e immutabili. Per rendere bene il concetto, non va dimenticato che se si parla delle origini della cucina bolognese, ad esempio, essa va riferita all’élite cardinalizia e borghese della città emilinana. Gli strati poveri e la maggioranza della popolazione per secoli ignorarono praticamente tutto delle specialità che hanno reso celebre la mia città, “grassa” e “dotta”. Guido Bezzola (1991) ricorda i tremendi e quasi incredibili squilibri alimentari della Milano di Stendhal. La parola “pane”, che per noi è sinonimo di “vitto”, significava solo “pane” poiché gran parte della popolazione urbana si nutriva solo di quello mentre in campagna prevaleva la polenta e la castagna. Allorquando si parla di piatti regionali d’origine contadina, dovremmo chiederci in primo luogo quante persone li mangiavano e quante volte nella loro vita, dice Bezzola.
Dunque l’attuale stereotipo che attribuisce ad una tradizione popolare piatti che in realtà la maggioranza della popolazione conosceva appena, la dice lunga sulla mistificazione culturale a cui stiamo assistendo. Tutto questo è ancor più evidente se si considera che anche tra le classi borghesi, la frequenza del consumo delle tipiche specialità della cucina “grassa” era enormemente più bassa di quel che suppone l’osservatore moderno. I tortellini, tanto per fare un esempio classico e ovvio, erano consumati in pochissime occasioni.
A presto Dario Bressanini
Addendum: il lettore Franco ha scritto un commento articolato sui dati ISTAT che potete leggere qui, mentre qui trovate le tabelle.
Scritto in Economia, Storia gastronomica | 372 Commenti »
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