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39 morti di troppo: il tragico studio CAST

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Introduzione

Dimmi la verità, quante volte ti è capitato di desiderare ardentemente qualcosa salvo poi scoprire che una volta ottenuto, non ti rendeva così felice come avevi immaginato? O, peggio ancora, ha avuto conseguenze negative impreviste.

Stai attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo!

Aforisma attribuito a Oscar Wilde, ma in realtà solo una delle ultime declinazioni di un monito ricorrente nella letteratura antica e moderna, un invito alla cautela, che ci mette in guardia sul fatto che la realizzazione di un desiderio non sempre è garanzia di soddisfazione, perché potrebbe invece introdurre complicazioni o difficoltà inattese.

E così quando si parla di salute… attento a chiedere un farmaco o un esame al tuo medico, perché potrebbe anche prescrivertelo…. e per certi versi è proprio quello che è successo in un tristemente famoso studio condotto negli anni 80 del secolo scorso, che rappresenta a mio parere uno dei più drammatici esempi del fatto che non sempre curare un esame medico, ovvero il risultato di un’analisi strumentale, equivalga a curare il paziente.

Come nel più classico dei patti con il Diavolo, il soddisfacimento di un desiderio umano, peraltro basato sulle migliori intenzioni, si è purtroppo trasformato in un’amara lezione per la Medicina moderna, in cui a pagarne le conseguenze sono stati però i pazienti stessi.

Medico comunica una triste notizia a una donna

Shutterstock/Stock-Asso

Lo studio

Il Cardiac Arrhythmia Suppression Trial (CAST) aveva un unico obiettivo molto semplice: voleva salvare delle vite.

Sopravvivere a un infarto è solo il primo passo di un lungo percorso di recupero, che nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi all’evento, richiede al paziente non solo un impegno costante nella riabilitazione e nella riconsiderazione delle proprie abitudini di vita, ma anche una stretta collaborazione con l’equipe medica per monitorare attentamente la salute, adottando e adattando il piano terapeutico con l’obiettivo di prevenire tutte le possibili complicanze e correggere i fattori di rischio su cui è possibile intervenire.

Siamo negli anni ’80 e, all’epoca, una percentuale variabile tra l’8 e il 15% dei pazienti sopravvissuti a un infarto sarebbe comunque morta nell’arco di un anno a causa dell’insorgenza di un’aritmia, una delle possibili complicazioni dell’attacco di cuore. Da questa osservazione alla pianificazione dello studio il passo è stato breve: quante vite si possono salvare regolarizzando il battito del cuore nei pazienti colpiti da infarto non fatale?

L’idea di base dello studio, assolutamente condivisibile sulla carta, nasce quindi da una premessa molto semplice: i pazienti che subiscono un infarto miocardico sono esposti a un elevato rischio di morte improvvisa, spesso a causa dell’insorgenza di aritmie, ovvero alterazioni del normale battito cardiaco. Se preveniamo queste aritmie, possiamo ridurre il rischio di morte come complicazione tardiva dell’infarto stesso.

La ricerca nasce non solo con le migliori intenzioni, ma anche con le solide premesse metodologiche: condotta tra >il 1986 e il 1989 attraverso la collaborazione di 27 centri medici, è stata progettata seguendo un rigido protocollo di doppio cieco, randomizzato e controllato, assicurando così la massima obiettività e affidabilità dei risultati ottenuti.

La vera sorpresa, purtroppo, è stata la sua prematura interruzione.

Non sono molte le ragioni per cui uno studio può venire interrotto prima del previsto, ma sono ancora meno quelle che portano, nonostante tutto, a una modifica della pratica clinica, ovvero la cui portata è così significativa da richiedere un immediato ripensamento e adeguamento di linee guida o quantomeno dei protocolli di trattamento.

Uno studio solido come quello di cui stiamo parlando prevede in genere la suddivisione casuale dei pazienti in due gruppi:

  1. al primo gruppo viene somministrato il farmaco o il trattamento in esame,
  2. mentre al secondo gruppo, detto di controllo, viene fornito
    1. o il miglior trattamento disponibile, per un confronto diretto,
    2. oppure un placebo, che è sostanzialmente una sostanza inerte come uno zuccherino, allo scopo di valutare l’efficacia reale del trattamento studiato.

Nello studio CAST gli oltre 1700 pazienti coinvolti sono stati reclutati tra coloro che presentassero due caratteristiche ben precise:

  • un infarto miocardico avvenuto da 6 giorni a 2 anni prima dell’inizio dello studio,
  • la diagnosi una specifica alterazione del normale battito cardiaco, ovvero lo sviluppo di sei o più battiti ventricolari prematuri in un’ora, ma senza particolari sintomi e soprattutto in grado di rispondere all’azione di farmaci antiaritmici.

Il protocollo è stato piuttosto complesso, ma possiamo semplicemente immaginare i 1700 pazienti suddivisi casualmente in 4 gruppi: il primo gruppo riceveva lo zuccherino (placebo), gli altri 3 un diverso farmaco antiaritmico, con l’obiettivo di capire quale eventualmente fosse il più efficace a prevenire una morte cardiaca improvvisa.

Il sogno di ogni ricercatore è che il proprio studio venga interrotto prima del tempo a causa di un risultato così chiaramente e indiscutibilmente positivo da indurre la sospensione dell’esperimento per ragioni etiche: continuare a somministrare uno zuccherino a metà dei pazienti significa privarli di un trattamento evidentemente efficace che potrebbe significare la differenza tra vivere o morire.

Purtroppo non è quello che è successo durante lo studio CAST, che è invece un drammatico esempio del caso più temuto da ogni ricercatore.

I farmaci utilizzati (encainide, flecainide e moracizina) hanno effettivamente ridotto con successo, come previsto sulla carta, le alterazioni del battito cardiaco, ma al terribile e imprevedibile prezzo di una mortalità più elevata.

A 2 anni circa dall’arruolamento dei pazienti, lo studio è stato interrotto a causa dell’aumento della mortalità nei gruppi di soggetti tristemente sorteggiati per assumere encainide e flecainide, ma anche il terzo farmaco avrebbe dimostrato di lì a poco di sortire purtroppo lo stesso effetto.

I pazienti che assumevano i farmaci correvano un rischio 2.6 volte più alto di morire per, incredibile a dirsi, proprio aritmia, favorita dai farmaci stessi.

I ricercatori, nell’articolo che ha preceduto un più ampio resoconto dello studio, concludono che

né l’encainide né la flecainide dovrebbero essere utilizzate nel trattamento di pazienti con aritmia ventricolare asintomatica o minimamente sintomatica dopo infarto miocardico, anche se questi farmaci possono essere inizialmente efficaci nel sopprimere l’aritmia ventricolare.

Se ci pensi può apparire paradossale: i medici con quel farmaco sono riusciti in quello che era il loro intento, curare le aritmie evidenziate sull’elettrocardiogramma, ma in modo probabilmente imprevedibile si sono trovati di fronte a un aumento della mortalità.

È stato curato l’esame, ma non il paziente.

Concludono i ricercatori: Non è noto se questi risultati si applichino ad altri pazienti che potrebbero essere candidati alla terapia antiaritmica.

E in effetti la flecainide è un farmaco usato ancora oggi, ma con una grande differenza: a distanza di quasi 40 anni da quello sciagurato studio, ma lo ribadiamo, forse inevitabile, il suo utilizzo è stato circoscritto a condizioni in cui il rapporto rischio beneficio è stato dimostrato essere favorevole, ovvero capace di garantire effettivi vantaggi terapeutici, come in molti pazienti affetti da fibrillazione atriale.

Cosa ci portiamo a casa?

In passato ci siamo più volte illusi che curare esami del sangue e tracciati strumentali fosse la strada giusta da seguire, ma questo non è sempre vero:

  • perseguire ad ogni costo valori di glicemia ideali nel soggetto diabetico non è sempre la scelta migliore, ad esempio nei soggetti più anziani un approccio più cauto e tollerante è preferibile al rischio di incappare in pericolosi episodi di ipoglicemia,
  • somministrare farmaci antiepilettici ad altissime dosi per curare il referto di un encefalogramma non è più l’unico elemento di valutazione, perché oggi la volontà è di preservare la salute del paziente nel miglior modo possibile, non curare l’esame.

La medicina moderna consiste quasi invariabilmente nell’accettazione di un compromesso tra effetti positivi ed effetti collaterali, probabilità di averne un beneficio rispetto al rischio di possibili complicazioni, e questo vale tanto per i farmaci quanto per la chirurgia o per qualsiasi altro trattamento.

Accettare questo è inevitabile e la bravura dei medici sta anche nella capacità di valutazione di questo rapporto, per offrire a ciascun paziente il compromesso migliore, puntando cioè sulla scommessa che gli garantisca la più elevata probabilità di successo.

C’è forse un’unica grande eccezione… una possibilità in cui il compromesso diventa quasi un’opportunità: la prevenzione attraverso lo stile di vita. In questo scenario le scelte quotidiane trasformano il potenziale compromesso in un netto vantaggio. Adottare una dieta equilibrata, dedicarsi all’attività fisica regolare, mantenere un peso corporeo sano, smettere di fumare e moderare il consumo di alcol non solo migliorano la salute generale, ma apportano benefici tangibili e immediati al benessere psicofisico.

Questi cambiamenti nello stile di vita hanno il potere non solo di prevenire l’insorgenza di malattie croniche, ma anche di elevare significativamente la qualità della vita; in questo senso, la prevenzione diventa la migliore medicina, una scelta proattiva che ciascuno di noi ha il potere di fare per sé stesso, puntando su una strategia di salute a lungo termine.

Come in una moderna scommessa di Pascal, optare per scelte salutari rappresenta la decisione più vantaggiosa anche razionalmente, perché il potenziale guadagno supera significativamente il rischio di qualsiasi perdita.

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