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Valori normali di pressione, colesterolo e diabete sempre più bassi

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Segue trascrizione del video

Introduzione

Non è possibile, è ora di dire basta! È evidente di quanto siamo in balia delle case farmaceutiche, di BigPharma!

È infatti da anni, ma cosa dico da anni, da decenni che i valori normali di colesterolo, glicemia e pressione vengono sistematicamente abbassati per trasformarci tutti in pazienti e costringerci a comprare i loro farmaci. Vogliono solo arricchirsi alle nostre spalle!

Io lo so che vorresti leggero questo, per poi magari continuare per righe e righe di improperi e anche insulti, ma se mi conosci sai che non è nel mio stile; consentimi allora un passo indietro, delineiamo il quadro della situazione e poi facciamo insieme qualche ragionamento un po’ più costruttivo.

Una sola precisazione prima di iniziare: per non rendere l’articolo troppo pesante, mi prenderò la libertà di semplificare alcuni concetti, ovviamente solo quando questo non interferisca con la bontà del ragionamento. Ad esempio parlerò di colesterolo alto intendendo espressamente l’iperlipidemia, ignorerò volutamente la condizione di intolleranza glucidica e cose simili.

Immagine concettuale dell'abuso di farmaci

Shutterstock/YummyBuum

Di cosa stiamo parlando?

Se non sai a cosa mi riferisco, ecco un brevissimo riassunto. Negli ultimi decenni i valori considerati normali per pressione del sangue, glicemia e colesterolo sono stati progressivamente e sistematicamente diminuiti, con aggiornamenti più o meno periodici delle linee guida.

Lascia che ti faccia un esempio. Una vecchia pagina pubblicata nel 2012 sul sito della Fondazione Veronesi descrive le allora nuove linee guida appena pubblicate sul controllo del colesterolo, sottolineando di come i valori considerabili normali di quello totale fossero stati abbassati a 190 e non più 200 o addirittura 220 come solo fino a pochi anni prima. Lasciamo per ora da parte le differenze tra colesterolo buono, cattivo, simpatico e antipatico, perché esempi simili si possono fare anche per pressione del sangue e glicemia (quantità di zucchero nel sangue).

I valori considerati normali, anche se in realtà il termine “normali” non è propriamente corretto, meglio sarebbe forse parlare di ideali, sono importanti perché rappresentano il riferimento che consente ai medici di diagnosticare rispettivamente:

Se abbassiamo i valori normali, avremo ovviamente più diagnosi di malattia, più persone trasformate in pazienti, più pazienti che prendono farmaci, più soldi per l’industria farmaceutica.

Che le industrie farmaceutiche non solo siano ben felici di questa situazione, ma che potrebbero effettivamente tentare di esercitare una certa pressione è ovviamente possibile, addirittura probabile se non scontato, ma su questo non c’è a mio avviso molto da dire e soprattutto non lo considero particolarmente interessante, anche perché Einstein una volta ha detto

Tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile, ma non più semplice.

Questa visione del mondo ben si applica anche a questo argomento: pensare che i valori diminuiscano costantemente solo e soltanto per decisione dell’industria è a mio parere un po’ troppo semplicistico e per rendersene conto dobbiamo prima spiegare come e da chi vengono decisi questi valori.

Cosa sono i valori normali?

Le tre condizioni di cui stiamo parlando, colesterolo alto, pressione alta e diabete, hanno una caratteristica comune un po’ particolare: spesso NON causano sintomi, ma aumentano il rischio di sviluppare infarti e ictus. Se ci fai caso questa è una situazione tutt’altro che comune in medicina: una diagnosi formulata sulla base di soli valori numerici, a prescindere dai sintomi, che da sola è considerata spesso sufficiente a giustificare la prescrizione di farmaci.

Ci troviamo quindi nella difficile situazione di dover scoprire, diagnosticare e possibilmente curare una malattia potenzialmente senza sintomi fino al patatrac.

E questo è il primo grosso ostacolo cui ci troveremo di fronte oggi, perché diventa elevatissimo il rischio di sovra-diagnosi, ovvero diagnosticare la malattia a pazienti non malati, ovvero pazienti che potrebbero in realtà non sviluppare mai alcuna complicazione.

Ad esempio, ad oggi, se hai una glicemia uguale o superiore a 126 mg/dL ti verrà diagnosticato il diabete, mentre anni fa la soglia era a 140. Inutile dire che questo cambio ha reso da un giorno all’altro diabetici milioni di persone.

I medici responsabili della stesura delle linee guida dove queste soglie numeriche si definiscono, sono ovviamente consapevoli del rischio di sovra-diagnosi, quindi vengono prese alcune precauzioni per mitigarne i rischi, ad esempio la diagnosi di diabete viene posta solo a patto di trovare un valore di 126 o superiore per due volte di seguito a distanza di qualche tempo, oppure nel caso del colesterolo si procede in modo ancora più granulare, prendendo in considerazione un calcolo complesso che determini il rischio d’infarto del singolo paziente, sulla base di tutto il suo quadro clinico, le sue abitudini e la sua genetica.

Ma come si è arrivati a definire quel 126? Un vero e proprio spartiacque fra salute e malattia…

Perché diciamo che se hai una pressione pari o superiore a 140/90 mmHg soffri di pressione alta?

Tra poco vedremo che è tutt’altro che banale, ma iniziamo da un esempio parlando proprio di valori di pressione, ma tieni a mente che gli stessi ragionamenti si applicano anche a diabete e colesterolo: si stima che per ogni aumento della pressione arteriosa di 20 sulla massima o 10 mmHg sulla minima, il paziente veda raddoppiare il rischio di morte per ictus, malattie cardiache o altre cause vascolari, a partire dal valore di 115/75 mmHg.

Quindi se la tua pressione massima è pari a 135, a prescindere da altri fattori hai un rischio doppio di chi dovesse avere 115.

Come varia il rischio all’aumento della pressione?

Su questo tipo di andamento vale a mio avviso la pena spenderci qualche parola, perché è piuttosto interessante; tanto per cominciare, doppio non significa necessariamente “alto” in senso assoluto, non si significa necessariamente “preoccupante”, e sarà forse un po’ più chiaro con una similitudine. È una storiella che gira in numerose forme, magari l’hai già anche sentita, e cercherò allora di farla breve:

Un antico re indiano, per ricompensare l’inventore del gioco degli scacchi, gli permise di chiedere qualsiasi cosa volesse come ricompensa. L’acuto inventore chiese un chicco di riso da mettere sulla prima casella della scacchiera, due chicchi sulla seconda, 4 sulla terza e poi chiese che su ogni casella successiva venisse messa una quantità doppia di riso rispetto alla casella precedente. L’insieme finale ottenuto sulle 64 caselle, sarebbe stata la sua ricompensa. Questa richiesta apparentemente modesta si rivelò presto impossibile da soddisfare a causa dell’enorme crescita esponenziale, che superava la produzione mondiale di riso.

Lo stesso tipo di andamento si osserva tra rischio di ictus e aumento della pressione e scavando un pochino emergono almeno 3 caratteristiche interessanti:

  1. Fino a una pressione di 115/75 il rischio è il più basso possibile, significa che avere ad esempio 110 di massima non offre vantaggi rispetto ad avere 115, mentre avere 116 è un pizzico più rischioso di avere 115. Quanto più rischioso? Un nonnulla, un aumento trascurabile, ma comunque di più. Allo stesso modo 117 è un pizzico più rischioso di 116 e così via. Quindi ad ogni passo il rischio aumenta. E tuttavia…
  2. … il rischio iniziale, quello che si corre con la pressione a 115, è ovviamente molto basso; il doppio di un rischio basso, rimane comunque un valore modesto, che non cambia l’aspettativa di vita in modo sostanziale.. Se nel portafoglio hai un euro e un anonimo benefattore si proponesse per raddoppiare ciò che possiedi, non ti cambierebbe certo la vita, anziché un bicchiere d’acqua potresti prendere forse un caffè. Ma se questo scambio te le proponessero avendo in tasca 500.000 euro, magari dopo aver venduto la tua casa per necessità, … beh, la cosa si farebbe interessante, no?
  3. Il terzo aspetto su cui vorrei farti riflettere, che emerge con grande ironia dalla storiella del riso, è che si osserva tuttavia un aumento molto rapido, si osserva un’accelerazione dell’aumento, che in pochi passaggi trasforma un valore trascurabile (un singolo chicco di riso) in rischio cardiovascolare molto elevato (più dell’intera produzione mondiale di riso). Questo significa che se tra 115 e 120 non cambia praticamente nulla, tra 165 e 170 è già tutto un altro paio di maniche.

Tecnicamente questo si chiama aumento esponenziale e se fino ad ora abbiamo visto il bicchiere mezzo vuoto, parlando di aumento del rischio, possiamo capovolgere la situazione e vedere il bicchiere mezzo pieno, perché ad esempio riuscire ad abbassare la pressione da 170 a 165, può sembrare poco, ma in realtà fa già una grande differenza, quindi possiamo dire che più e alta la pressione, e più anche solo piccoli cambiamenti possono fare una grande differenza.

Il problema più grosso

Ora immagina di essere uno dei medici specialisti scelti per redigere le nuove linee guida per la pressione del sangue, come possiamo fare per individuare il valore più appropriato?

L’obiettivo è, ça va sans dire, salvare quante più vite possibile, giusto?

Eh… non è così semplice in realtà: se volessimo salvare più vite possibile dovremmo prescrivere un farmaco contro la pressione alta a tutte le persone con valori superiori a 115/75, con un dosaggio tale da abbassare la pressione fino a questi valori. In un mondo ideale avremmo a disposizione per farlo anche un medicinale ideale, gratis e senza effetti collaterali, allora sì, quella coppia di valori sarebbe la soglia ideale e potremmo realmente aspirare a salvare più vite possibile.

Purtroppo nel mondo reale non è così: i farmaci non sono gratuiti, o tu o lo Stato, ma vanno pagati, ma soprattutto hanno effetti collaterali e controindicazioni. Qualsiasi farmaco, qualsiasi, può causare problemi, quindi ha senso prescriverlo quando i vantaggi superano gli svantaggi… ma qui ci troviamo di fronte a un altro problema… diciamo che il farmaco per la pressione potrebbe causare tosse secca e stizzosa, disfunzione erettile e talvolta anche ipotensione ortostatica, che a sua volta può causare cadute e traumi. Quando il beneficio in termini di protezione cardiovascolare supera questi possibili svantaggi?

Domanda difficile a cui rispondere, ma non è nemmeno la più ostica… perché a complicare tutto sono queste due considerazioni:

  1. Prendi 100 pazienti che soffrono di pressione alta, ma che NON vogliono prendere farmaci oppure non sanno di essere ipertesi e quindi comunque non assumono nulla: a prescindere dal valore di pressione usato per la diagnosi, di questi 100 ci saranno alcuni che presto o tardi svilupperanno un ictus, altri che camperanno fino a 100 anni o che comunque se ne andranno per altri problemi di salute non correlati.
  2. Ora prendi invece 100 pazienti che soffrono di pressione alta e che sono scrupolosamente in terapia: di questi molti meno avranno un ictus, ovviamente, ma comunque ci sarà qualche sfigato che oltre a subire gli eventuali effetti collaterali del farmaco, svilupperà comunque un ictus.

Questo significa che un farmaco potrebbe essere inutile:

  1. Inutile perché magari decidi di prenderlo, ma saresti stato fortunato e non ti sarebbe capitato nulla comunque.
  2. Oppure inutile perché pur prendendolo svilupperai comunque un ictus.

Ma tu ovviamente NON sai prima se sei nel gruppo dei fortunati o meno… non lo puoi sapere. E tuttavia un dato di fatto che più è alta la pressione e più il farmaco salva vite.

E ora ti ripropongo la domanda iniziale… se fossi un medico, dove la metteresti la soglia per la diagnosi di pressione alta? Qualsiasi soglia tu scelga sarà comunque sempre arbitraria… certo, scelta nell’ottica di massimizzare i benefici e ridurre gli effetti collaterali, ma comunque un compromesso. Ci sarà sempre qualcuno che avremmo potuto salvare se la soglia fosse stata un po’ più bassa, ci sarà sempre qualcuno che prenderà il farmaco inutilmente perché per lui la soglia era troppo bassa.

Ci sarà sempre qualcuno che nei commenti mi scriverà:

  • “Il mio medico ha visto il colesterolo di un punto sopra la norma e mi ha subito prescritto la statina, ma con il cavolo che la prendo!”
  • “Il mio medico non mi ha prescritto nulla pur con il colesterolo aumentato perché non lo riteneva necessario e due settimane dopo ho avuto un ictus”

Ci sarebbe a questo proposito da parlare dell’enorme piaga della medicina difensiva, e la colpa in questo caso è di noi pazienti, ma non apriamo altre parentesi.

Numero di pazienti da trattare (NNT)

Un modo interessante, più scientifico, per valutare l’appropriatezza di una prescrizione è calcolare il cosiddetto Number Needed to Treat (NNT), ovvero il numero di pazienti da trattare con un dato farmaco per salvare una persona. Non voglio fare esempi reali perché potrebbero venire mal interpretati, ma vale comunque la pena ragionare in astratto.

Poniamo che esista un farmaco per trattare la pressione alta che abbia un Number Needed to Treat per l’ictus pari a 400: significa che dobbiamo prescrivere il farmaco a 400 persone per salvarne una, una sola, perché gli altri 399 non avrebbero sviluppato ictus o, al contrario, lo svilupperanno comunque. 1 su 400 non è un grande farmaco, no? Non avrebbe troppo senso… eppure essere quella singola persona su 400 farebbe un po’ rabbia… non trovi anche tu? Ma di nuovo, non abbiamo la possibilità di saperlo in anticipo.

Oh, per inciso, ovviamente il Number Needed to Treat varia in base al valore che definiamo normale: se ritenessimo normale un valore di pressione massima di 170, il Number Needed to Treat sarà ovviamente inferiore, ma maggiori saranno le morti che potremmo lasciare per strada. Questo è il modo statistico per dire che maggiore è la differenza rispetto al valore ideale, maggiori sono i benefici derivanti dall’assunzione del farmaco.

A questo potremmo ancora aggiungere un ulteriore strato di complessità, perché a livello politico entrano in gioco considerazioni economiche, soprattutto in Paesi come l’Italia dove i farmaci per colesterolo, pressione alta e diabete sono in genere mutuabili. Abbassare la soglia di normalità significa costi maggiori per lo Stato per l’acquisto di medicine, d’altra parte una soglia troppo elevata significa costi ospedalieri e post-ospedalieri a seguito di infarti e ictus, ma direi che non c’è bisogno di sviscerare anche questo… Credo di essere riuscito a convincerti della difficoltà nel tirare arbitrariamente una riga e dire: da qui in poi serve un farmaco, dal valore immediatamente precedente no.

Come ragiona un medico?

Credo che possa essere interessante analizzare il ragionamento di un medico che, in una lettera inviata al direttore di una delle più prestigiose riviste medico-scientifiche del mondo (The British Medical Journal), usa il proprio caso personale per evidenziare la difficoltà nel decidere se iniziare una statina per abbassare il proprio colesterolo, o farne a meno. Te la riassumo brevemente:

  • Genitori del sud-est asiatico, di un’etnia storicamente considerata ad aumentato rischio cardiovascolare.
  • Familiarità per eventi cardiovascolari, ha un fratello infartuato con 50 anni
  • Residente da tempo in Scozia, nazione che per alimentazione e stile di vita è considerata ad alto rischio.
  • Il suo cardiologo, precisa non il medico curante, consiglierebbe di iniziare una statina.
  • In quanto medico decide di valutare personalmente attraverso il Number Needed to Treat, per capire la percentuale di beneficio, insomma, quante possibilità ha di vincere la lotteria ed essere fra i pazienti salvati dal farmaco. Il valore cui si trova di fronte è duplice:
    • 167 per pazienti a basso rischio, ovvero è necessario prescrivere le statine a 167 persone  a basso rischio per salvare una vita
    • e 67 per pazienti a rischio moderato, un numero chiaramente più basso perché i pazienti presentano un rischio maggiore del precedente.
  • A questo punto ci sono considerazioni sui possibili effetti collaterali, in particolare quelli subiti dai 166 pazienti su 167 che non beneficeranno del trattamento, ma che potrebbero essere interessati da effetti indesiderati.
  • Stima infine di correre un rischio del 13% di avere un infarto nei prossimi 10 anni, percentuale che sale al 22% se considera anche come assodato il fattore genetico.

Tu cosa decideresti se fossi al suo posto?

Lui ha optato per farsi carico del rischio e rinunciare alla terapia, pur con la consapevolezza di rischiare. Non esiste una risposta giusta o sbagliata in assoluto nel suo caso e probabilmente nemmeno nel tuo, anche perché nel flusso dei pensieri entrano anche valutazioni personali che prescindono dal dualismo giusto/sbagliato.

Il rischio della sovradiagnosi

Ci avviamo verso la conclusione con un’interessante argomentazione che viene spesso portata a sostegno della tesi secondo cui il progressivo cambiamento a senso unico, ovvero sempre verso il basso, che hanno subito questi valori sia da imputarsi solo a interessi economici, ed è questa:

I livelli di colesterolo al di sopra dei quali i protocolli medici indicano di usare statine si sono abbassati nel tempo, per mezzo di statistiche che hanno via via dimostrato cose diverse. Appare credibile che gli esseri umani si modifichino nel tempo?

Il dubbio è assolutamente legittimo e ovviamente no, gli esseri umani non si modificano nel tempo (o meglio, non in 50 anni, mentre in 5000 o 50000 anni sicuramente sì, ma questa è un’altra storia); quello che cambia in 50 anni sono tuttavia le prove che abbiamo a disposizione, che diventano più numerose e che ci permettono di aumentare la cosiddetta potenza statistica. Semplificando un po’, due esempi potranno meglio chiarire cosa intendo:

  1. Con la scoperta di un nuovo farmaco è possibile che io inizi a prescriverlo e studiarlo solo nei pazienti considerati ad altissimo rischio, accorgendomi solo anni dopo che in realtà l’effetto protettivo si estende su valori anche molto più bassi rispetto a quelli ipotizzati inizialmente
  2. Se anziché valutare 1000 persone, ho la possibilità di valutarne 10 milioni aggregando 20 anni di studi, sarò in grado di osservare e scoprire effetti molto più piccoli, come ad esempio i benefici di una statina nei pazienti a basso rischio.

Questo tuttavia ci riporta ai pericoli di sovradiagnosi di cui parlavamo all’inizio, possibilità che rientra peraltro nel novero di tutte quelle abitudini e strategie terapeutiche che negli ultimi anni stanno a mio avviso ipermedicalizzando la salute umana.

La decisione di un valore normale, o più correttamente di un valore target (cioè da raggiungere), ecco che appare quindi come un compromesso frutto di un intricato gioco delle parti, giocato come abbiamo visto a vari livelli. Mi sforzo di pensare che per la maggior parte i protagonisti in gioco ne prendano parte in buona fede, talvolta anche a costo di un’eccessiva facilità alla diagnosi ma mossi comunque dalla volontà di salvare quante più vite possibile, d’altra parte non possiamo nasconderci dietro una foglia fico: che le industrie farmaceutiche abbiano tutto l’interesse per abbassare il più possibile le soglie non ci piove, non c’è nemmeno il bisogno di discuterne, ma allo stesso tempo spero di averti fatto capire quanto sia difficile decidere per la vita di milioni di persone, alla ricerca del bilanciamento ideale tra rischi e benefici, con la consapevolezza che qualsiasi valore si scelga ci sarà qualcuno che ne uscirà danneggiato.

Cosa possiamo fare per difenderci?

Vorrei però chiudere il discorso con le due strategie che come pazienti dovremmo, a mio parere, esercitare per proteggerci dai rischi di un’eccessiva medicalizzazione della nostra vita.

Il primo consiglio è di affidarti a medici con cui instaurare un rapporto di reciproca fiducia, con i quali ogni scelta terapeutica sia il frutto di una collaborazione, nell’ovvio rispetto dei propri ruoli.

In secondo luogo, ma non meno importante, prima ti ho detto che “in un mondo ideale avremmo a disposizione un medicinale altrettanto ideale, gratis e privo di effetti collaterali”, che sarebbe perfetto da prescrivere a tutti.

Se ti dicessi che questo farmaco esiste? E funziona per pressione alta, diabete, colesterolo e tante altre malattie… si chiama stile di vita.

È vero, ammetto che purtroppo non è infallibile, ma è sostanzialmente privo di effetti collaterali e nessun farmaco di sintesi può vantare un’efficacia così estesa tanto in termini di effetti preventivi e terapeutici, quanto di persone che ne possono beneficiare. Non credo che sia stato mai calcolato il valore di Number Needed to Treat, ma penso di non sbagliare dicendo che non dev’essere troppo lontano da 1, a maggior ragione se guardiamo agli effetti cumulativi che se ne traggono, ma soprattutto abbiamo tonnellate di prove a sostegno di quello che sto dicendo. Prendi ad esempio gli Hadza, un popolo africano di cacciatori raccoglitori rimasto abbastanza isolato dagli agi delle società occidentali per poter essere preso a paragone. Hanno una vita particolarmente attiva, peraltro a prescindere dall’età: si stima che pratichino per necessità più di 2 ore AL GIORNO di attività moderata o vigorosa, 14 volte di più rispetto all’americano medio che quando va bene la pratica un’ora alla SETTIMANA, e presentano un ridottissimo numero di casi di pressione alta e valori ottimali degli altri parametri cardiovascolari.

E segnaliamo agli amici paleo che il 20% del fabbisogno calorico degli Hadza viene coperto da zuccheri semplici in forma di miele, oltre a una quota rilevante di tuberi e bacche di vario tipo, quindi una dieta paleo, con carboidrati… 😉

E allora OK, vigiliamo tutti insieme sulle industrie farmaceutiche che non esagerino, ma le probabilità che con uno stile di vita adeguato tu non debba mai nemmeno preoccuparti di queste cose, è davvero alta, io al tuo posto ci penserei…

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